La “karavésema”

La bambola quaresimale
Una Tradizione popolare del periodo pasquale

Filastrocca della “Karavésema” –

“Karnevale bbdgne kumpagnne,
ke pozza vegni tré vote a gl’agnne.
Karavésema baffuta,
ke nen fosse maje venùta

karavéserna sékka, sékka,
ku ‘na sposta de fike sèkke.
ku ‘naveta de bakkalàgne,
karavèsima a scialàce.

Carnevale buon compagno
che possa venire tre volte all’anno [spesso]
Quaresima baffuta [brutta]
che non fosse mai venuta

Quaresima secca, secca, [magra]
con una borsa di fichi secchi,
con un’altra di baccalà,
Quaresima ha goduto.

 

Alla riscoperta delle antiche tradizioni

Il termine tradizione deriva dal latino traditio ovvero “consegna, trasmissione”. Rinnovare una tradizione significa trasmettere nel tempo notizie, memorie, consuetudini tramandate da una generazione all’altra attraverso l’esempio e le testimonianze orali o scritte.

Nel periodo quaresimale, girando per le vie di Pontecorvo, è possibile notare su alcuni balconi una bambola che al posto dei piedi ha una cipolla nella quale sono conficcate delle penne di gallina. Su un balcone di corso Garibaldi si può ancora notare una bambola con intorno altri elementi tali da dare un quadro espositivo quasi totale e far capire che si tratta di una tradizionale bambola pasquale conosciuta con il nome di “Karavésema”.

Di questa tradizione si conosce il significato in modo un pò superficiale, spesso solo per aver ascoltato i ricordi d’infanzia e le usanze raccontate dai genitori o dai nonni. Nella città di Pontecorvo sono almeno cinque le famiglie che espongono ancora la “Karavésema”, un oggetto di cui è bene ricordare le origini ed il significato. Questo opuscolo ha lo scopo di riscoprire e far conoscere alle nuove generazioni una tradizione quasi del tutto scomparsa e portata avanti ormai da poche persone. Ogni tradizione, piccola o grande, è parte integrante della storia di un popolo e dimenticarla significa rinnegare sé stessi e quanti altri hanno portato avanti usi e costumi nei secoli; attraverso di essa si possono conoscere le radici di un popolo che troppo spesso vengono dimenticate. La tradizione legata alla bambola “quaresimale” è espressione e simbolo di una cultura agro-pastorale che, pur con qualche variazione in ogni luogo, si perde nella notte dei tempi. La sua origine pagana è legata al culto dionisiaco (da Dioniso, Dio greco dell’entusiasmo e del vino) e alla celebrazione della primavera, quindi al risveglio della natura. La “Karavésema” vuole rappresentare il periodo quaresimale che va dal mercoledì delle ceneri alla domenica di Pasqua e quindi possiamo considerarla il calendario del periodo pasquale. Essa non è altro che una bambola costruita con materiale semplice e tipico del luogo. A Pontecorvo vengono adoperati oggetti che caratterizzano molto gli usi e i costumi locali: la scopa di “stramma”, legata al lavoro artigianale degli “strammari” e il vestito da “pacchiana”, legato alla figura femminile, elemento centrale sia del lavoro domestico che dell’educazione della prole. Inoltre in questa tradizione si inserisce il fuso con la rocca con l’intento di indurre le bambine della famiglia all’attività della filatura e tessitura in quanto erano loro stesse in prima persona a provvedere alla formazione della dote. Questo simbolo richiama il mito delle Moire greche, figlie di Temi e Zeus, filanti il destino e il tempo dell’uomo. Le sette penne di gallina conficcate in una cipolla o patata, nelle nostre zone, un’arancia o un limone simbolo di ristrettezza e di astinenza, in altre zone, rappresentano le domeniche che segnano la Quaresima. Allo scadere di ciascuna domenica una penna viene bruciata nel camino affinché il fumo tenga lontano gli spiriti maligni. Assieme alla bambola troviamo altri elementi ricchi di significato: il pesce (la “saràka’), il pane e la cipolla con il vino che rappresentano il pranzo dei poveri e quindi il digiuno e l’astinenza nel periodo quaresimale che segue alle abbuffate del periodo di carnevale.

Il significato della Quaresima

Quaresima significa “quaranta giorni” ovvero i quaranta giorni durante i quali la comunità cristiana è invitata a prepararsi alla Pasqua, ovvero alla Risurrezione di Cristo e ricorda i quaranta giorni passati da Gesù nel deserto, subito dopo il battesimo ricevuto da Giovanni, dedicati alla riflessione, alla penitenza e alla purificazione dello spirito. In realtà il periodo è di quarantaquattro giorni e va dal mercoledì delle Ceneri al momento della messa vespertina del giovedì santo.

Nelle zone del nord Italia, in cui è in vigore il rito ambrosiano e non quello romano, il periodo di Quaresima dura esattamente quaranta giorni e comincia la domenica successiva al martedì grasso proseguendo fino al giovedì Santo.

Nell’Antico Testamento il numero quaranta ricorre molte volte, spesso si parla proprio di “quaranta giorni” e ciò ha avuto una certa rilevanza sulla determinazione della durata della Quaresima: i quaranta giorni del diluvio universale, i quaranta giorni passati da Mosé sul monte Sinai, i quaranta giorni che impiegarono gli ebrei per esplorare la terra in cui sarebbero entrati, i quaranta giorni di cammino del profeta Elia per giungere al monte Oreb, i quaranta giorni di tempo che, nella predicazione di Giona, Dio dà alla citta di Ninive prima di distruggerla.

Anche nel Nuovo Testamento ci sono alcuni passi chiave nei quali si parla di quaranta giorni: i quaranta giorni che Gesù passò nel deserto, i quaranta giorni in cui Gesù ammaestrò i suoi discepoli tra la Resurrezione e l’Ascensione. Quaranta sono gli anni trascorsi nel deserto dal popolo ebraico prima di raggiungere la terra promessa ed ancora quaranta è, sempre per gli ebrei, il tempo di una generazione.

In sostanza il numero quaranta rappresenta il tempo speso alla presenza di Dio.

Il carattere originario della quaresima è riposto nella penitenza di tutta la comunità cristiana e dei singoli, protratta per quaranta giorni. La penitenza quaresimale comporta il digiuno ecclesiastico, ovvero l’astinenza dalle carni il venerdì, la preghiera e la carità.

La chiesa insegna che queste opere devono essere compiute nella consapevolezza del loro valore, in vista della purificazione, e non fine a sé stesse.

La Quaresima, della quale non si hanno testimonianze sulla sua celebrazione prima del Concilio di Nicea del 325 d.C., vuole soprattutto ricordare le sofferenze e il sacrificio di Gesù verso l’uomo e consentire, a tutti, tramite il digiuno e la preghiera di riflettere sulla propria esistenza coerente con gli insegnamenti del figlio di Dio.

La Bambola nella storia

La bambola viene generalmente considerata il giocattolo più antico della storia ed è stato uno degli strumenti pedagogici per eccellenza. Inizialmente modellata in argilla, poi costruita in legno con gli arti snodati. A metà strada tra feticcio e figura magica, la bambola nell’antichità era destinata anche a entrare nei corredi funebri sia accanto alle mummie egiziane che nei sarcofagi romani.

Nella foto accanto la bambola più famosa pervenutaci dall’antichità è stata scoperta nel quartiere Prati a Roma nel 1889 durante gli scavi per la costruzione del Palazzo di Giustizia. La bambola, alta 23 cm., di avorio, con braccia e gambe articolate, era all’interno del sarcofago di una fanciulla di diciotto anni (su cui Pascoli ha scritto un carme in latino)

morta nel 170 d.C.

Il fatto che la bambola sia stata rinvenuta nella tomba indica che la fanciulla è morta prima di sposarsi; infatti nell’antica Roma era usanza che, dopo la cerimonia nuziale, la sposa donasse i giocattoli della sua infanzia ai Lari (spiriti protettori degli antenati defunti) o a Venere.

A quel tempo gli artigiani costruttori di bambole erano chiamati “giguli” ovvero creatori di “giochi gioiosi”. La produzione antica prevedeva bambole che potevano essere vestite e svestite, i visi curati, i capelli e i copricapi dipinti, gli occhi truccati, le labbra tinte di rosso. Alcune di esse, destinate alle bambine delle classi più abbienti, erano dotate di ricchi corredi e indossavano abiti costosi.

Le bambole, durante il medioevo e nel rinascimento, erano costruite di pezza o legno. Nel fasto delle corti europee seicentesche le bambole, considerate doni eccentrici e oggetti di lusso, continuavano a incuriosire soprattutto gli adulti e divennero le protagoniste anche di capricciosi regali.

Nel XVIII secolo la bambola acquisisce identità e caratteristiche che ne fanno un oggetto del tutto autonomo: legata alla moda, diviene manichino per provare i sontuosi vestiti, le acconciature e i gioielli delle corti regali.

Ma è nell’ottocento, il secolo d’oro, che, passata la rivoluzione francese e tramontato l’Ancien Régime, la produzione delle bambole subisce il processo di industrializzazione. Vengono così impiegati nuovi materiali, quali la porcellana lucida, soprattutto per la realizzazione della testa. Ma è nel 1959 che un geniale collaboratore della statunitense Mattel, Ruth, intuisce finalmente che la bambola non è e non deve essere per le bambine un surrogato dell’istinto materno ma un simbolo del desiderio di un’amica o di una sorella più grande. E cosi che nasce Barbie. Il mondo dei collezionisti si è accorto anche di lei e oggi è infatti uno dei giocattoli moderni più collezionato.

Anticamente non tutti avevano il denaro per acquistarle, cosi le facevano anche di pezza ed oggi sono chiamate “pigotte” e usate dall’UNICEF per raccogliere fondi per i bambini poveri.

La bambola a Pontecorvo

Anche in un territorio, prettamente agricolo come quello di Pontecorvo, le bambine di una volta hanno posseduto delle bambole. Dai racconti di qualche anziano si sente che le classi agiate avevano bambole di porcellana con vestiti di stoffe pregiate mentre le bambine delle classi meno abbienti possedevano bambole improvvisate con i materiali più svariati.

Si racconta di bambole di stoffa fatte in casa con delle pezze di scarto, oppure si dava spazio alla pura fantasia raccogliendo dal campo una pannocchia e adoperandola come bambola perché l’inflorescenza della punta simulava i capelli e si conservava fino a quando non era più utilizzabile. Nel periodo in cui le pannocchie non c’erano, ovvero quello della quaresima, se ne improvvisava una che assumeva un significato sacro: la bambola quaresimale (la “Karavésema”). Questa bambola veniva costruita con un materiale semplice, che tutte le famiglie rurali avevano in casa, e cioè la scopa di “stramma” che serviva per spazzare i pavimenti di selciato o di terra battuta.

Le immagini nella pagina accanto si riferiscono alle tre classi sociali di un tempo. Le immagini n° 1 e 2 erano le bambole dei poveri, ovvero dell’80% della popolazione formata da coloni e mezzadri, le cui bambine si divertivano con mezzi rudimentali come la “stramma” e le pannocchie. L’immagine n° 3 fa riferimento ai ceti borghesi (piccoli e medi proprietari) che per costruire le bambole per le loro bambine adoperavano stracci di recupero. L’ immagine n° 4 è collegata alla classe ricca che comperava preziose bambole di porcellana vestite con sontuosi abiti.

La “Karavésema” a Pontecorvo

Per la costruzione della “Karavésema” veniva adoperata la scopa di “stramma” ai cui piedi si attaccava una cipolla in cui erano inserite a raggiera sette penne di gallina scelte fra le più belle (la gallina, insieme all’agnello, era l’animale che si cucinava per il pranzo pasquale e serviva per fare il brodo) e che rappresentavano il calendario del periodo pasquale. La bambola, cosi addobbata, veniva attaccata all’interno o all’esterno del portone di casa, in modo da essere visibile in ogni momento, e ogni domenica, prima di andare a messa, qualcuno vi toglieva una penna. Ogni penna rappresentava una delle sette domeniche che rimangono per arrivare a Pasqua: le cinque domeniche di Quaresima, la domenica delle Palme per finire con la domenica di Pasqua. Veniva spiegato a tutta la famiglia, in particolare ai bambini, che la “Karavésema” era un simbolo importante e attraverso questa simbologia si insegnava a mantenere un comportamento idoneo durante il periodo quaresimale per arrivare al giorno di Pasqua senza peccati. Questo periodo doveva essere di penitenza, preghiera e digiuno, a tal punto che ai bambini veniva proibito di giocare con l’altalena.

Anche il numero sette è importante come simbologia.

Perché sette penne? Innanzitutto perché sette sono le domeniche che mancano alla Pasqua dall’inizio della Quaresima, poi perché sette è un numero ricorrente fin dalla astrologia babilonese, che lo riteneva sacro perché rappresentava la perfezione del cosmo celeste in quanto sette erano i pianeti e il ciclo lunare veniva diviso in sette giorni.

Anche nella religione cristiana il numero sette ricorre spessissimo. La Bibbia ci dice che Dio impiego sette giorni per creare il mondo e sette sono i giorni della settimana che ricordano quel momento ed il settimo lo adoperò per il suo riposo; ancora sette sono le invocazioni del Padre Nostro, sette i grandi Arcangeli dell’Apocalisse e sette le chiese di Efeso. L’Antico Testamento spiega che ci sono voluti sette nomi per definire il cielo e altrettanti per definire la terra, che sette sono i sigilli la cui rottura annuncerà la fine del mondo, seguita dal suono di sette trombe suonate da sette Angeli, quindi dai sette Portenti e infine dal versamento delle sette coppe dell’ira di Dio (da Giovanni nell’Apocalisse). Anche il Nuovo Testamento riprende la tradizione del numero sette: sette sono i libri dell’Eptateuco nella Bibbia cosi come i Sacramenti, i doni dello Spirito Santo, i peccati capitali, le virtù, i veli della danza di Salomé, le opere di misericordia e i dolori di Maria.

Nell’antichità fu stabilito che sette erano le meraviglie del mondo.

La “Karavésema” quindi viene usata come un calendario durante il periodo quaresimale, attraverso le sette penne, ma testimonia soprattutto la devozione, da parte della popolazione rurale pontecorvese, verso la religione cattolica.

Tra gli elementi che la accompagnano troviamo altri due oggetti: la “saràka” (l’aringa salata) e il vino, mentre il pane non compare forse perché era un bene di uso quotidiano. A riprova di ciò la signora lorio Maria Luigia, una ultraottantenne di corso Garibaldi, ha spiegato che accanto alla “Karavésema” pone una “saràka” e una bottiglietta di vino.

La signora Maria è l’unica a Pontecorvo che rappresenta questa tradizione utilizzando questi altri due simboli; essa ha spiegato, con dovizia di particolari e immensa soddisfazione, che la trilogia (pesce, vino e pane) rappresentava il pranzo dei contadini poveri di una volta che durante i periodi di digiuno, quali appunto la Quaresima, mangiavano il pane insaporito all’aringa attraverso lo strofinio, la cipolla e un goccio di vino.

L’aringa salata era il pesce dei poveri ed era l’unico che si trovava in commercio a costo relativa mente basso, assieme al baccalà. II pesce è uno dei simboli di Gesù Cristo e nei miti antichi è anche segno di amore, saggezza, fecondità. Il termine “pesce” deriva dal greco “iktus” ed era, tra i primi cristiani, una vera e propria professione di fede ed una formula di preghiera (“iktus” è infatti l’acronimo dell’espressione Jesus Kristos Teoù Uiós Soter ovvero Gesù Cristo Figlio di Dio, Salvatore).

La domenica si dedicava alla “Karavésema” perché per i contadini era sia il giorno della messa che del riposo; togliere la penna dalla “Karavésema” e vedere gli altri elementi che l’accompagnavano significava ricordare che iniziava una nuova settimana di preghiera, penitenza e digiuno, quindi le sofferenze di Gesù sulla croce. Dall’analisi degli elementi che compongono la “Karavésema” possiamo dire che la comunità contadina poneva sullo stesso piano il pranzo o la cena di una umile famiglia rurale, attraverso il pane insaporito alla “saràka”, cipolla e vino, con l’ultima cena effettuata da Gesù Cristo il giovedì Santo. II fuso con il filo, rappresentati nella foto scattata in via Concezione nel periodo quaresimale, stanno a sottolineare il lavoro della donna e il trascorrere del tempo.

La “Karavésema” in Italia

La tradizione della bambola quaresima le viene rinnovata esclusivamente nel centro sud Italia, dal Lazio all’Abruzzo, dal Molise alla Campania, dalla Puglia alla Calabria. Le bambole sono simili nel loro aspetto esteriore ma differiscono nel nome a seconda del luogo: “Karavésema” a Pontecorvo (FR), “Coraisima” a Gagliato (CZ), “Quarésema” a San Lorenzo Maggiore (BN), “Quarantana” a San Croce di Magliano (CB) e a Martina Franca (TA), “Quaresima” a Ponza (LT), “Corajisima” a Rota Greca (CS) e a San Floro (CS), “Pupattola” o “Quaresima” a Massa Lubrense (NA), “Kreshmesa” a Spezzano Albanese (CS), “Caravesem” a Vitulazio (CA).

Guardando le “Karavéseme” presenti nel centro sud d’Italia notiamo che esse, anche se non uguali, sono però abbastanza simili; vecchiette brutte, magre e trasandate per rappresentare un periodo di astinenza dal cibo, penitenza e preghiera.

Si adopera spesso la bambola industriale di plastica sicuramente per motivi di praticità e in alcuni luoghi si costruisce la bambola con stoffe di vecchi ombrelli.

Alcuni adoperano la scopa di “stramma” (come a Pontecorvo), altri la “pigotta”, vi è chi inserisce la cipolla, chi la patata, altri arance o limoni, chi inserisce l’aringa, chi il peperoncino, altri il guanciale, dando ad ognuno di questi elementi significati diversi ma accomunati dal concetto di astinenza dal cibo. Tutte le bambole quaresimali hanno in comune le sette penne di gallina a simboleggiare il calendario del periodo quaresimale. Qualcuno le espone sul balcone, altri accanto al portone di casa e in ognuna di esse c’è qualcosa di tradizionale e di mistico.

Le foto, tratte dalla rete, confermano la presenza della bambola quaresimale nel centro sud d’Italia.

Conclusioni

I simboli del vino e del pane, legati al rito dell’Eucarestia, e il pesce (la “saraka”) legato al nome di Cristo, sono uniti alla bambola quaresimale solo a Pontecorvo, forse per il particolare legame tra la nostra cultura popolare e lo spirito religioso.

Sulle origini della “Karavésema” a Pontecorvo se ne sa poco o nulla ma possiamo ipotizzare che questa tradizione, molto probabilmente, è arrivata a noi all’incirca intorno all’anno mille quando i monaci greci si sono insediati nel nostro territorio portando con loro l’uso della bambola quaresimale molto presente nella loro terra d’origine ovvero in Calabria. In seguito é stata fatta propria dai monaci cappuccini (presenti a Pontecorvo presso il monastero della Madonna delle Grazie dal 1579 al 1849 e sostituiti nel 1850 dai padri passionisti). Vediamo infatti come, con elementi semplici e rudimentali, vengono esposti concetti religiosi che solo un ordine monastico, quali quello dei francescani, avrebbe potuto spiegare. Questo ordine, infatti, insegnava la religione alle classi contadine analfabete attraverso figure iconografiche e, molto probabilmente, ha trasmesso la tradizione della “Karavésema”.

Noi speriamo con questo opuscolo, di stimolare ricordi e passioni, sentimenti e spiritualità, che si concretizzano nel rinnovo di una delle tante tradizioni di Pontecorvo, la “Karavésema”, legata alla nostra origine, al nostro tessuto sociale, alle nostre radici popolari che non devono essere né perse né dimenticate.

Pubblicazione curata da Fernando Di Maggio con la collaborazione del Comitato “La Tradizione non si tocca”

Si ringraziano per il contributo:
– Pirotecnica Zonfrilli,
– Autoricambi Severiano,
– Bar Ugaldi,
– PR di Pasquale Rosati,
– Edil Vincenzo,
– Mollicone Bernardo,
– Art Ferro di Castaldo,
– Peo Games, – Eden M.G.,
– Extrafrutta, – Casa Nora,
– Stile Libero,
– Le Fantasie del Grano,
– OCM.

In copertina: la bambola quaresimale (la “Karavésema”) assieme agli elementi che ne arricchiscono il significato.
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Grafica e impaginazione a cura di: Laura Viola